Questa è una storia che la maggior parte di noi non ha mai sentito. E’ la storia cruda, ma vera, di quando giocavamo a fare la potenza coloniale, e facevamo pulizia etnica, deportazioni forzate e bombardavamo i civili. E’ anche la storia di un Generale, Rodolfo Graziani, che rischia di essere un nome conosciuto solo agli appassionati di storia, ma la cui vicenda umana e militare si intreccia con quella di centinaia di migliaia di persone che hanno subito la tragedia del colonialismo. Quella di Graziani è una storia poco divulgata del nostro paese, forse in parte un po’ nascosta. Prima di scoprirla ragazzi ricordate che soltanto con il vostro supporto possiamo realizzare questi video. Qua sotto c’è il tasto iscriviti abbonati, la campanella o i commenti. Già sapete cosa fare. Grazie mille.
Graziani nasce nel 1882 in provincia di Frosinone da una famiglia borghese. Il padre, che è un medico, forse lo vorrebbe prete, visto che gli fa frequentare il seminario a Subiaco. Rodolfo però, alla vita religiosa preferisce la carriera militare. Il padre però non ha sufficienti risorse per l’iscrizione a una accademia militare. Così, quando viene chiamato al servizio di leva, si arruola come ufficiale di complemento. E’ in servizio nel 94° reggimento di fanteria, a Roma, dove inizia la sua carriera: nel 1903 è promosso prima caporale e poi sergente, e a maggio del 1904 riceve i gradi da sottotenente. Dopo due anni sceglie definitivamente la carriera militare ed entra in servizio permanente effettivo. Graziani non si trova bene a Roma perché lui si sente un “uomo d’azione” e, comunque, le sue “magre finanze” non gli consentono di affrontare quelle che definisce “le seduzioni della Capitale”.
In Eritrea
Chiede allora di essere trasferito in Eritrea, perché lì, nella prima colonia italiana in Africa, ci sono maggiori possibilità di carriera per uno come lui, che non viene da un’accademia. Nel dicembre del 1908 la sua richiesta viene accolta e raggiunge Adi Ugri, un remoto villaggio del sud del paese, dove gli italiani hanno costruito un forte. Forse non è l’Africa che sognava da ragazzino, e forse non è che ci siano poi tante occasioni per mostrare il proprio valore. In compenso ci sono i serpenti o la malaria. Graziani incappa in tutti e due: un serpente lo morde a un dito e poi contrae la malaria. Fra il morso di serpente prima e la malaria poi passa diversi mesi in ospedale, ad Asmara e Massaua, per poi tornare in Italia, ingloriosamente in barella, nel 1912. Intanto ha conquistato i gradi di capitano.
La 1ª guerra mondiale
Nel 1914 Graziani è in Libia, dove si ferma fino allo scoppio della prima guerra mondiale. Durante il conflitto mondiale riporta diverse ferite e finisce intossicato dai gas, ma ha modo di mostrare il suo valore. Tanto è vero che, a soli 36 anni, viene promosso colonnello. Dopo la Libia va in Macedonia e poi il suo reggimento rientra in sede, a Parma. E’ l’agosto del 1919. Nell’Italia è appena uscita dalla guerra e la situazione non è facile, anzi, potrebbe definirsi esplosiva. Operai e contadini sono spesso in sciopero o impegnati in manifestazioni che si concludono in scontri con la polizia e con l’occupazione di fabbriche e terreni. E’ il cosiddetto biennio rosso, durante il quale le lotte proletarie sembrano anticipare una rivoluzione di stampo socialista, come quella russa. In realtà hanno l’effetto di portare alla formazione dei cosiddetti Partiti d’Ordine, preludio del fascismo. In questo contesto, Graziani entra in crisi: davanti “allo spettacolo del valore disprezzato e rinnegato” chiede di essere messo in aspettativa. Tenta la via del commercio con l’oriente, si sposta tra Atene e Istanbul, ma conclude poco, e quindi torna in Italia. Il ministero della guerra gli propone di tornare in Libia, che è da “riconquistare”, perché il dominio italiano è abbastanza precario e limitato alla zona costiera.
In Libia
La campagna di riconquista inizia nel luglio del 1921, quando viene nominato governatore della Tripolitania Giuseppe Volpi, sostenuto dal ministro delle colonie Giovanni Amendola. Graziani, che arriva in Libia nell’ottobre del 1921, si rivela adattissimo a quel tipo di guerra: rigetta le “teorie retrograde e statiche” degli altri ufficiali e adotta tattiche nuove. Le azioni devono essere veloci, addirittura fulminee, per sorprendere i “ribelli”, che non dispongono delle nuove tecnologie usate dalle forze italiane: gli aerei, che annullano lo svantaggio di dover combattere nel deserto, e poi la radio, che consente i collegamenti tra gli aerei stessi e i comandi militari. E poi ci sono i battaglioni di ascari eritrei e truppe reclutate tra gli stessi libici. Graziani ottiene molte vittorie, che gli valgono la nomina a generale di brigata. Il 23 gennaio 1923, insieme al nuovo grado, riceve la tessera ad honorem del Partito nazionale fascista. Graziani viene osannato e la sua reputazione cresce a dismisura, tanto che qualcuno lo paragona a Scipione l’Africano.
Onore e gloria dunque. Ma Graziani non si distingue solo per la sua audacia e i successi, ma anche per i suoi metodi brutali e sanguinari: per i libici, ma non solo per loro, lui è “il macellaio degli arabi”. Sono in tanti a non approvare i suoi metodi, ma lui tira dritto per la sua strada perché, dice, ha la coscienza tranquilla, nonostante “le accuse di crudeltà, atrocità, violenza che mi sono state attribuite”. E si dà una giustificazione storica: “nulla di nuovo si costruisce, se non si distrugge in tutto o in parte un passato che non regge più al presente”. E il presente è il fascismo, è Benito Mussolini, che apprezza le qualità di Graziani, prototipo del nuovo tipo di italiano, audace ed energico.
La Tripolitania, che è una delle due colonie italiane in Libia, viene quasi interamente conquistata, grazie anche al generale Graziani. Per completare l’opera manca la Cirenaica, l’altro territorio coloniale in Libia. Ed è qui che le truppe italiane incontrano la resistenza più forte, e danno il peggio di sé: compiono deportazioni ed esecuzioni di massa di civili e ribelli, usano armi chimiche proibite, insomma si macchiano di crimini atroci e ingiustificabili. Rodolfo Graziani è ovviamente in prima linea, con le sue colonne mobili veloci. Il 25 febbraio 1928 se la vede brutta, a Tagrift, dove si trova a combattere contro i ribelli quasi ad armi pari. Alla fine li respinge, anche se rimangono sul campo una sessantina di italiani.
A gennaio del 1929 Tripolitania e Cirenaica vengono affidate ad un unico governatore. Mussolini sceglie il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio. Appena arriva a Tripoli, Badoglio emette un comunicato rivolto alla popolazione libica, nel quale ribadisce che il governo italiano “è giusto e benevolo verso quelli che si sottomettono con cuor puro alle leggi e agli ordini; inflessibile, invece, e senza pietà, per i pochi malintenzionati che, nella loro follia, credono potersi opporre all’invincibile forza dell’Italia”.
La resistenza libica non si fa intimidire, ma Graziani ha la meglio in tre scontri, nella prima metà del ’29. E’ ora di spingersi verso l’area desertica del Fezzan, dove si concentrano le residue forze dei ribelli, che ammontano forse a 1500 uomini. Graziani è entusiasta, convinto di arrivare a stanare il nemico là dove è convinto di essere inaccessibile. Il generale prevede una campagna eroica: “Ci si presentano all’orizzonte marce desertiche memorabili, potremmo dire di carattere biblico. Noi le compiremo tutte, con la consueta energia”. Tra l’inizio di dicembre del 1929 e la fine di gennaio 1930, gli italiani conquistano quasi tutto il Fezzan. Gli ultimi gruppi di ribelli cercano di passare il confine con l’Algeria, ma sono rallentati dalle famiglie che li seguono, e dal bestiame che rappresenta la loro unica fonte di sostentamento. Questa fuga potrebbe essere considerata già una vittoria, perché i capi della resistenza stanno lasciando la Libia e una volta in Algeria saranno disarmati dai francesi. Hanno perso, su tutto il fronte, e l’Italia ha vinto.
Ma si tratta di una vittoria che non dà soddisfazione a Graziani, perché lui vuole annientare il nemico. Il 13 e 14 febbraio, uno squadrone di aerei bombarda senza sosta la linea di frontiera. E’ un massacro, testimoniato in diretta da un giornalista italiano, che parla di “gregge umano”, composto “da una moltitudine di donne e bambini”, seguiti dal bestiame. E’ la “visione biblica di un esodo”, la cui colpa ricade, sempre a detta del giornalista, su “pochi capi delinquenti che trascinavano nella loro fuga quella povera gente”.
L’accoppiata Graziani – Badoglio consente di spianare la strada alle vittorie perché nessuno dei due ha il minimo scrupolo di coscienza, come dimostra la successiva campagna militare.
Nel 1930, dopo il successo riportato nel Fezzan, Graziani viene nominato vice-governatore della Cirenaica, perché occorre stanare e giustiziare i ribelli che, dall’altipiano di Gebel al Akhdar, compiono azioni di guerriglia contro gli invasori. A capo dei ribelli c’è Omar al-Mukhtar, imam dei senussiti, che abitano l’altopiano. La “popolazione sottomessa”, anche se non partecipa direttamente alla resistenza libica, garantisce il proprio appoggio ai ribelli.
Graziani adotta subito delle misure atte a risolvere il problema. Per prima cosa si libera dei battaglioni composti da libici, poi procede al disarmo della popolazione civile. Introduce la pena di morte per chi è complice dei ribelli, e istituisce un “tribunale volante”, che si sposta rapidamente a seconda delle necessità, per dimostrare la rapidità e l’efficienza della giustizia italiana. Questi provvedimenti però non portano quasi a nulla, come gli fanno notare Badoglio e anche il ministro delle colonie De Bono.
Proprio Badoglio gli impartisce un ordine che dimostra di che pasta è fatto: occorre deportare tutta la popolazione del Gebel al Akhdar, per togliere sostegno ai ribelli. Il maresciallo scrive di suo pugno: “Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso fra formazioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica.”
La responsabilità del trasferimento coatto di oltre 100.000 persone non è solo di Badoglio che l’ha ordinato e di Graziani che l’ha messo in atto. Dietro a loro c’è anche il ministro De Bono, che già da tempo faceva pressioni in tal senso e, al vertice, c’è Benito Mussolini, che lo approva. A partire dal 27 giugno 1930, Graziani trasferisce nei campi di concentramento tutta la popolazione del Gebel e di altre zone della Cirenaica settentrionale, attraverso estenuanti marce nel deserto. In alcuni casi, il percorso supera i mille chilometri e per compierlo occorrono mesi, che per i deportati significano fame, sete, fatica e violenze fisiche. Chi si attarda lungo il cammino, perché anziano, malato o debilitato, viene ucciso sul posto o semplicemente abbandonato nel deserto. E non si tratta di pericolosi ribelli, in maggioranza sono donne, bambini e anziani. In una relazione sul trasferimento di un gruppo di migliaia di persone, si legge: “Non furono ammessi ritardi durante le tappe. Chi indugiava veniva immediatamente passato per le armi. Un provvedimento così draconiano fu preso per necessità di cose, restie come erano le popolazioni ad abbandonare le loro terre e i loro beni“.
I deportati ammontano a circa la metà della popolazione della Cirenaica, e si stima che almeno 40.000 di loro siano morti, tra le deportazioni e la detenzione nei campi di concentramento. Nei lager italiani, oltre che a vivere in condizioni igieniche indescrivibili, i prigionieri patiscono fame e violenza, e vengono uccisi se osano ribellarsi o tentano la fuga.
Alla fine, tutta l’operazione dà i suoi frutti: Omar al- Mukhtar è allo stremo delle forze, i suoi uomini si sono più che dimezzati – da 1500 a circa 700 – e lui ha 73 anni. L’11 settembre 1931 viene ferito, catturato e poi trasferito nel carcere di Bengasi. Graziani in persona lo interroga, ma rimane deluso su tutti i fronti: il vecchio e indomito “leone del deserto” non gli fornisce nessuna informazione, né accetta di esercitare il suo ascendente per convincere i suoi ad arrendersi. A quel punto il generale lo congeda, e Mukhtar fa il gesto di porgergli la mano, ma i ferri glielo impediscono. D’altronde – scrive Graziani – “non l’avrei toccata”, e conclude: “Il dramma cirenaico è finito”. Il 16 settembre il leader della resistenza libica viene impiccato, davanti a 20.000 sui connazionali fatti arrivare dai campi di concentramento lì vicini.
Graziani può affermare che il dramma cirenaico è finito, perché dopo l’inizio delle deportazioni non è rimasto con le mani in mano: il 31 luglio del 1930 ordina un bombardamento aereo sulle oasi nella regione di Taizerbo. Tutte le bombe contengono iprite, conosciuto come gas mostarda, che ha dato – dice Graziani – “un risultato visibilmente efficace”, ovvero piaghe, vesciche, ulcere, anche interne. I ribelli si rifugiano nell’oasi di Cufra, con Graziani che li insegue. Il 26 agosto ordina un nuovo bombardamento, che provoca 100 morti, oltre a 14 guerriglieri giustiziati.
Nel 1932 ottiene il grado di generale di corpo d’armata, per “meriti speciali”, ma rimane deluso dalla mancata nomina a governatore della Libia, che va a Italo Balbo, nel 1934. Balbo lo rispedisce subito in Italia, perché perfino uno squadrista come lui non approva quei suoi metodi violenti e barbari.
In Etiopia
La carriera africana di Graziani prosegue in Etiopia. Mussolini vuole una colonia dove gli italiani possano stabilirsi non come emigranti ma da padroni di casa. Vuole consolidare il suo potere in patria e dimostrarsi all’altezza degli altri paesi colonialisti d’Europa. Vuole anche vendicarsi dell’umiliazione subita ad Adua nel 1896, durante la guerra d’Abissinia. La guerra d’Etiopia inizia a ottobre del 1935, ma la sua preparazione risale ad almeno tre anni prima, con una campagna di propaganda che esalta l’idea della “Nuova Italia” e sottolinea “l’inferiorità mentale dei negri” (queste sono parole dell’esploratore Lidio Cipriani). Per arrivare a conquistare un impero, non bisogna farsi scrupoli di nessun tipo.
Chi meglio di Rodolfo Graziani può guidare questa impresa? Nel febbraio del 1935 Mussolini lo nomina governatore della Somalia e comandante in capo delle forze armate. E’ un incarico importante, che però non soddisfa l’ambizione del generale. La Somalia è il fronte sud dell’imminente guerra, dove lui deve rimanere in difesa, perché l’invasione partirà da nord. Graziani attende l’occasione giusta per farsi valere, che arriva a gennaio del 1936. Affronta le truppe del ras Destà Damtù, che sta muovendo la sua armata. Graziani usa gli aerei per bombardare le colonne nemiche, e insegue i superstiti fino alla città di Neghelli, che occupa. Ma l’obiettivo è un altro: conquistare Harar, come preteso da Mussolini. Nonostante l’efficienza e l’energia di Graziani l’impresa non è facile, per le continue piogge che rallentano la marcia, per la difficoltà nei rifornimenti e anche per le frequenti defezioni nella brigata eritrea. Graziani vuole mostrarsi all’altezza di Badoglio, che ha sbaragliato le truppe etiopi nella battaglia di Amba Aradam, che è un altro vergognoso capitolo della guerra coloniale italiana.
L’offensiva di Graziani parte il 20 marzo del 1936, quando inizia a bombardare le truppe nemiche, con esplosivi e gas, che si stavano preparando a riprendere i territori occupati dagli italiani. Dopo molti combattimenti e i non pochi ostacoli dovuti alle piogge, le truppe di Graziani entrano ad Harar il 6 maggio 1936. Ma non si fermano lì, perché il generale vuole precedere Badoglio, che aveva già occupato Addis Abeba e stava marciando verso Dire Daua. Graziani entra in città all’alba, giusto qualche ora prima dell’arrivo di Badoglio. Tutte queste vittorie sono frutto, tra l’altro, dell’uso indiscriminato di bombardamenti a tappeto, anche con armi chimiche, proibite dalla Convenzione di Ginevra dal 1928. Eppure, è Mussolini in persona a dare il via libera, in diverse occasioni. Il 27 ottobre del 1935 gli scrive: “Autorizzo impiego gas come ultima ratio per sopraffare resistenza nemico o in caso di contrattacco”. Il generale usa le armi chimiche contro un ospedale da campo svedese, a supporto delle forze etiopi. Quell’attacco criminale scatena le proteste di mezzo mondo, così come l’uso dei gas durante tutta la guerra. Proteste che però non ottengono alcun risultato, nonostante qualche fiacca sanzione adottata dalla Società delle Nazioni già a novembre del 1935.
La fine della guerra d’Etiopia viene proclamata da Mussolini il 5 maggio del 1936, con un discorso dal balcone di palazzo Venezia. Quattro giorni dopo il duce viene proclamato “fondatore dell’impero”. Graziani riceve il grado di Maresciallo d’Italia e il titolo di Marchese di Neghelli. E soprattutto, viene nominato viceré d’Etiopia, dopo che Badoglio rinuncia all’incarico. Ma la colonia non è certo pacificata, anzi: occorrono azioni che portino all’annientamento dei ribelli, usando il consueto pugno di ferro. Mussolini, nel giugno 1936, ordina a Graziani di “condurre sistematicamente la politica del terrore e dello sterminio contro i ribelli e le popolazioni complici”. E come impariamo da qualunque occupazione forzata, anche in questo caso i ribelli si danno da fare con azioni di terrorismo.
Il 19 febbraio 1937 ad Addis Abeba si festeggia la nascita di Vittorio Emanuele di Savoia, con una grande cerimonia. Verso mezzogiorno un attentato la interrompe. Vengono fatte esplodere tre o quattro bombe, una di seguito all’altra. Graziani rimane ferito in modo grave da 350 schegge che lo investono nel lato desto del corpo. Si contano sette morti una cinquantina di feriti. La rappresaglia ordinata dal generale è immediata e feroce, e soprattutto indiscriminata.
Non ci sono stime precise del massacro, ma le vittime sono almeno 4.000. Ma non è sufficiente: occorre sradicare la resistenza con un “radicale repulisti”, per usare le parole di Mussolini. Migliaia di persone vengono portate nei campi di concentramento, mentre i personaggi di spicco finiscono in esilio in Italia. Graziani se la prende con gli intellettuali e persino con umili cantastorie che diffondono notizie false sui colonizzatori. E ancora, ordina la “liquidazione completa” del clero copto della città sacra di Debra Libanòs, perché c’è il vago sospetto che i monaci abbiano ispirato l’attentato. Non scampa nessuno. Dopo il rastrellamento, il 20 maggio i prigionieri vengono portati in un luogo isolato, sul bordo di un crepaccio, e uccisi a colpi di mitraglietta. Le vittime sono 1200, o forse 1600, tra monaci, seminaristi, diaconi e pellegrini. Dopo altre ribellioni e altrettante repressioni, persino Mussolini si rende conto che forse Graziani non è l’uomo giusto come viceré in Etiopia. Lo sostituisce con Amedeo di Savoia, duca d’Aosta, che non sopporta Graziani e lo fa richiamare in Italia, perché non lo vuole come comandante delle truppe. Il generale lascia l’Africa il 10 gennaio 1938. A Roma ha l’onore di essere pubblicamente abbracciato dal duce, che però in privato commenta: “Ha combattuto bene ma ha governato male”.
La seconda guerra mondiale
Dopo un periodo di “riposo” Graziani torna in servizio attivo: il 3 novembre 1939 viene nominato capo di stato maggiore dell’esercito, giusto uno scalino sotto l’onnipresente Badoglio, che è capo di stato maggiore generale. I due non vanno per niente d’accordo, e quando Italo Balbo muore a Tobruk, Graziani viene mandato in Libia come governatore. Graziani è convinto che Badoglio si sia voluto liberare di lui, mandandolo su un fronte dove può solo perdere. Mussolini, che rifiuta l’aiuto offerto da Hitler, pretende che Graziani proceda all’invasione dell’Egitto, senza tentennare e accampare scuse.
Ma il generale sa di non avere le forze e i mezzi sufficienti e quando li chiede, Badoglio glieli nega. Intanto il duce non sente ragioni e Graziani oltrepassa la frontiera egiziana il 13 settembre 1940. Avanza fino a Sedi El Barrani, a 95 chilometri dal confine, e lì si accampa, ad aspettare gli aiuti promessi da Badoglio. Sta fermo tre mesi, ma i rinforzi non arrivano. Li ricevono invece gli inglesi, che il 9 dicembre contrattaccano e sbaragliano gli italiani, perché loro hanno a disposizione carri armati ed aerei moderni. I britannici non solo fanno circa 38.000 prigionieri, ma penetrano in Libia, dove conquistano Bardia, città di confine, e si spingono fino a Tobruk, che cade il 21 gennaio 1941, e poi Beda Fomm, in Cirenaica.
La disfatta è totale, la Cirenaica è perduta. A quel punto, Graziani sollecita l’intervento delle forze meccanizzate tedesche – gli Afrikakorps -, ma per lui è troppo tardi. L’11 febbraio Mussolini lo destituisce, e in Italia lo aspetta un’inchiesta per come ha condotto le operazioni in Egitto. E’ un codardo? Molti ne sono convinti, ma comunque la cosa finisce lì. La commissione d’inchiesta non ritiene di dover punire Graziani, che però rimane senza incarico per due anni. Intanto le cose cambiano. L’8 settembre 1943 il generale Badoglio – ancora lui – annuncia la resa dell’Italia alle forze degli Alleati. Il 18 settembre nasce la Repubblica Sociale Italiana, uno stato fantoccio che ha Mussolini come capo, ma che in realtà è in mano ai tedeschi.
Benito Mussolini richiama Graziani, che aveva detto di disprezzare. Ma non è il momento di guardare tanto per il sottile. Il generale accetta l’incarico di ministro della guerra della Repubblica di Salò, forse perché il fedelissimo gerarca Francesco Barracu gli dice: “il vostro rifiuto potrebbe essere giudicato paura”. Oppure ci sono di mezzo sentimenti come ambizione, gelosia e voglia di rivalsa nei confronti di Badoglio. Lui poi scriverà di aver accettato in coscienza “la suprema missione che il destino mi segnava, […] per il bene della patria”.
Tra il 1943 e il 1944 richiama alle armi i nati tra il 1916 e il 1926, con il risultato di ingrossare le fila dei partigiani, visto che per i renitenti decreta la pena di morte. E’ anche a capo dell’armata “Liguria”, che combatte sulla linea gotica, ma l’incarico è solo formale, visto che a comandare sono i nazisti. Tanto è vero che per trattare la resa, a Caserta, deve firmare una delega al generale tedesco Karl Wolff, perché le forze alleate non riconoscono come stato la Repubblica Sociale Italiana. Il 29 aprile si consegna agli americani, che in pratica lo salvano dalla giustizia partigiana.
Finisce in Algeria, come prigioniero di guerra, e solo il 16 febbraio 1946 viene riconsegnato all’Italia, dove rimane detenuto prima in carcere e poi all’ospedale militare del Celio, a Roma. Un tribunale militare lo processa e, il 2 maggio 1950, lo condanna a 19 anni di carcere, per aver collaborato con i tedeschi. 19 anni di carcere possono sembrare tanti, o magari pochi, a seconda dei punti di vista, ma di fatto Graziani esce dopo appena quattro mesi. Non quattro anni, proprio quattro mesi… Cadono nel vuoto anche le richieste presentate alle Nazioni Unite dall’Etiopia, che lo vuole processare per crimini di guerra. Nel 1952 si iscrive al Movimento Sociale Italiano, fondato nel 1946 da fascisti di provata fede come Giorgio Almirante, Giorgio Bacchi, Rutilio Sermonti e molti altri. Un anno dopo ne diventa presidente onorario. L’11 gennaio 1955 muore, a Roma, per un’ulcera duodenale.
Rodolfo Graziani è morto da quasi 70 anni, il regime fascista è stato sconfitto da 80, e la storia coloniale dell’Italia si è conclusa con la fine della seconda guerra mondiale. Che senso ha rispolverare vicende lontane nel tempo, che sembrano superate dalla storia?
Una ragione c’è: l’avventura coniale italiana risente ancora del mito degli “italiani brava gente”, che oscura gli atroci crimini di guerra compiuti in Africa da personaggi come Graziani e Badoglio, sotto la diretta responsabilità di Mussolini, e tenuti nascosti all’opinione pubblica per decenni. L’Italia ammette l’uso di armi chimiche nelle campagne d’Africa solo nel 1996, quando il ministro della difesa dell’epoca desecreta gli archivi. Ma nemmeno questo è sufficiente.
Graziani ha vissuto i suoi ultimi anni nel piccolo paese di Affile, vicino Roma, ed è lì che viene sepolto. Nel 2012 il comune di Affile dedica un sacrario proprio a Rodolfo Graziani, maresciallo d’Italia e criminale di guerra. Un sacrario che è costato 125 mila euro di soldi pubblici. Nel suo discorso d’inaugurazione, il sindaco afferma che “Graziani è un esempio per i giovani”. La costruzione di quel sacrario, che celebra il protagonista di pagine vergognose della storia italiana, è uno dei motivi per i quali bisogna continuare a parlare di quel passato che ormai è sepolto, ma che in tanti, sempre troppi, vorrebbero resuscitare.